Se si considera il precario susseguirsi delle modifiche legislative del reato di abuso di ufficio nel corso degli ultimi trent’anni, viene spontaneo accostare quest’ ultimo al titolo del famoso romanzo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere” (1984), in cui viene mirabilmente delineata l’instabilità sentimentale di quattro personaggi nella Praga della fine degli anni ’60 del secolo scorso.

Ed, infatti, è notizia di questi giorni che sono state presentate tre proposte di legge, in Parlamento, da forze politiche tra di loro molto diverse (in alcuni casi con approcci alla realtà tra di loro antitetici), quali Lega, Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, aventi ad oggetto l’abrogazione o quanto meno il ridimensionamento della fattispecie dell’abuso d’ufficio e tendenti tutte dichiaratamente a disinnescare la cosiddetta “paura della firma” che tale norma incriminatrice induce nei pubblici amministratori al momento di adottare un provvedimento amministrativo.

Che poi la questione della “paura della firma” fosse sempre all’ordine del giorno anche negli anni scorsi, risulta chiaramente dal fatto che, nell’estate del 2020, il Governo Conte, pur trovandosi a dover fronteggiare i ben più importanti e pressanti problemi generati dalla prima ondata di coronavirus, ben abbia trovato il tempo ed il modo per modificare l’art. 323 c.p. con il decreto legge 16 luglio 2020 n. 76, riducendo significativamente la portata applicativa della norma incriminatrice.

Tale finalità legislativa è stata ottenuta, inserendo nel corpo della norma la previsione che la violazione della normativa amministrativa, da cui può scaturire la sussistenza dell’abuso di ufficio, debba essere contemplata: a) da specifiche regole di condotta; b) che tali regole di condotta siano espressamente previste dalla legge (e non più da fonti normative secondarie come i regolamenti); c) che, infine, da tali regole di condotta non derivino margini di discrezionalità amministrativa (debbano, cioè, essere norme di condotta vincolanti).

E’ chiaro l’intento del Legislatore volto a rendere più riconoscibili (all’amministratore pubblico) i confini tra lecito ed illecito penale, al momento della assunzione di un provvedimento/determinazione amministrativa e, quindi, ad agire per rendere più rigorose la tipicità e la tassatività di tale fattispecie di reato.

Andando ancora più a ritroso, si deve segnalare che anche il Governo Monti ha avuto modo di modificare la normativa sull’abuso di ufficio (con la Legge “Severino” n. 190/2012), aumentando la pena irrogabile, sia nel minimo che nel massimo edittale.

Venendo, infine, alle riforme operate negli anni ’90 del secolo scorso, è solo il caso di ricordare che, nel 1990, il primigenio “abuso innominato d’ufficio” previsto dal Codice Rocco è stato modificato nel contesto della riforma organica dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione (ossia, dalla Legge n. 86/1990) e che, nel 1997, di fronte all’incontrollabile forza “onnivora” della fattispecie manifestatasi durante l’indagine di Tangentopoli nel biennio 1992-1994, il Legislatore, con la Legge n. 234/1997, ha tentato di modificare la norma incriminatrice in senso fortemente più restrittivo.

Si chiude così il cerchio su di un trentennio di riforme riguardanti l’art. 323 c.p. che hanno dimostrato la più assoluta mancanza di chiari e precisi obiettivi di politica criminale da parte del Legislatore, avendo contribuito a realizzare una norma incriminatrice sofferta e terribilmente instabile che, oltre a frenare e smorzare ogni genuino attivismo nell’ambito della Pubblica Amministrazione, appare anche sostanzialmente inutile nel perseguire concretamente le più gravi manipolazioni dell’azione amministrativa.